Ghost Dreamers Town

Parte prima

Tempo fa un vecchio signore raccontò a un suo amico del satellite Titano descrivendo la pioggia di quel luogo lontano come una delle più belle meraviglie che la natura potesse regalare. Grazie alla sua atmosfera, simile alla nostra, ma più densa perché fatta di metano, disse, le gocce cadono a terra, lentamente, perfettamente sferiche come perle liquide. 

Pioggia di mercurio, pensai.

Senza interessarmi del fatto che quel signore avesse potuto inventare ogni singola parola della storia rimasi talmente affascinato e incantato da quella fotografia mentale che ancora oggi sogno di vivere prima o poi quello spettacolo travolgente….anche adesso che sono rimasto solo e, forse, l’ultimo sognatore di questo mondo.

Le giornate ormai scorrono monotone e il senso del tempo non esiste più da quando anche l’orologio del campanile si è fermato. 

Tutto da quel giorno é immobile. Il calendario in cucina é fermo a quella data, paralizzato come me, nuvola senza vento che non vuole dimenticare. 18 settembre 2016. L’inizio di tutto. E la fine di tutto.

Raccontare una storia nell’indifferenza mi conforta perché se ci fosse qualcuno ad ascoltare mi prenderebbe sicuramente per pazzo. Ormai la gente mi fa paura, preferisco il silenzio e la solitudine. Eppure una volta non era così…

La persone erano in continuo movimento, un flusso ritmico di gente che usciva ed entrava da edifici di ogni dimensione ed età; la metropolitana spezzava in diagonale le armonie delle vecchie strade; rivoli di fumo uscivano dai camini delle timide abitazioni. File di case identiche descrivevano per centinaia di metri gli stessi gesti, come se l’ultima volesse in qualche modo imparare dalla prima, creando un gioco di rassicurante dilatazione. 

E in questo quadro dalle tinte seppia noi eravamo i passeggeri urbani, elementi unici che sapevano far risuonare la città in tutta la sua bellezza.

Un pianoforte senza corde é muto e noi eravamo quelle corde.

La Città dei Sognatori, così la chiamavano.

Durante il giorno il paese si trasformava in una metropoli. Le persone arrivavano da ogni luogo: commercianti, turisti, curiosi, chiunque aveva un motivo per passare da noi almeno un giorno.

K era conosciuta per essere la città dell’arte, abitata quasi esclusivamente da artisti che con le loro creazioni regalavano colori e sogni a un mondo che ormai ne era orfano.

Noi i forestieri li chiamavamo automi, invece. Persone piatte, dallo sguardo spento arrivavano ogni giorno per trasformare le nostre opere e le nostre idee in business. Molti di loro si riconoscevano subito perché avevano una gelida corazza di indifferenza che li privava di ogni minima emozione; altri, invece, si mescolavano tra la folla senza molto successo. 

Connessioni…

Ricorderò sempre quel povero anziano, malato, caduto a terra, impaurito da rumorosi petardi. Nei suoi occhi il dolore riaffiorato da chissà quale ricordo lontano e l’indifferenza totale dei passanti, impassibili, vittime della loro quotidiana ricerca di fama, soldi e successo. Automi senz’anima felici del loro inconsapevole non essere, stagnanti in un coma cronico fatto di ego e falsità plasmato in ogni gesto come roccia granitica.

Di questa divisione io stavo nel mezzo, non ero né un artista né un automa, solo un sognatore. Non mi sono mai considerato speciale ma solamente fortunato per essere cresciuto in una città così particolare.

Mio padre invece era stato un famoso artigiano. Per tutta la vita costruì violoncelli, poi negli ultimi anni della sua esistenza iniziò a scolpire sul legno gli artisti più importanti di K. Diceva sempre che non c’era molta differenza tra costruire un violoncello e fare ritratti sul legno, la cosa fondamentale era calibrarne l’anima, diceva. Così fin da piccolo imparai ad affinare la sensibilità, a leggere tra le righe imparando non solo ad ascoltare ma a sentire.

Quando morì avevo 25 anni e una vita ancora da scolpire. Non sapevo ancora che un giorno, anche se a modo mio, avrei proseguito la strada che aveva iniziato.

Lavoravo per un piccolo giornale fuori città. Quando mi assunsero cercavano una persona che si dedicasse esclusivamente alla città di K, alle sue storie. Chi meglio di un abitante del luogo poteva ricoprire quel ruolo?

Me la cavavo bene con la scrittura ma non avevo abbastanza talento per diventare uno scrittore. Mi mancava la pazzia visiva per poter creare personaggi, paesi e storie; non ne avevo le capacità e anche se per anni era stato motivo di frustrazione imparai col tempo a farmene una ragione. Penso che ogni persona abbia bisogno di un ruolo in questo mondo, anche pochi minuti di soddisfazione per dare senso alla propria esistenza; il tempo necessario per sentirsi utile e riemergere dalle innumerevoli ingiustizie che ci sotterrano, strati e strati di polvere che ci ricoprono cancellando la nostra essenza. Avrei potuto farla finita tanto tempo fa, ma se l’avessi fatto non avrei mai trovato il mio vero scopo.

Cammino lungo la spiaggia ascoltando il silenzio fondersi con la mia ombra disegnata sulla sabbia e ripenso a quel giorno. Ricordo nella metropolitana il riflesso del mio viso compiaciuto, soddisfatto per la giornata trascorsa. Avevo presentato un articolo che il capo aveva deciso di pubblicare; non ricordo nemmeno più di cosa parlasse. Se penso ora a quella stupida soddisfazione rido e un po’ mi vergogno capendo solamente adesso quali fossero realmente le mie priorità..

Ricordo i miei passi costanti per arrivare a K, il marciapiede pieno di artistiche figure e poi il silenzio. Un assordante silenzio. K era la stessa, identica nelle sue sfumature ma non aveva più suono. Ogni singolo abitante era sparito.

Non realizzai subito, la mattina seguente mi fu chiara la situazione, ma quella sera intuii una situazione talmente inverosimile da non dar retta alle mie sensazioni.

I miei occhi si aprirono e quel rumore assordante iniziò a penetrare le mie orecchie. Se per ogni cosa esiste una frequenza che può distruggerla, sicuramente quel silenzio avrebbe prima o poi distrutto la mia anima.

Uscii di casa e il nulla mi avvolse. Un deserto blu dalle tinte jazz creava un velo distorto come se Munch stesse dipingendo quella mattina di K. 

Malinconia. La mia città era diventata la città dei sognatori fantasma.

Con passi incerti cercavo conforto in ogni direzione ma quello che potevo vedere erano solamente porte chiuse, case in letargo e macchine senza vita. Ogni tanto qualche vecchia foglia danzava col vento, giocando in quell’infinita desolazione quasi a deridermi. 

Corsi dal mio vicino di casa Tom e suonai il campanello. Nulla. Dalla porta finestra sul retro vidi che nessuno era in casa ma la porta era chiusa dall’interno. Tutto sembrava non essere stato mosso, solamente un foglio a terra catturò la mia attenzione ma non riuscii e leggerne il contenuto.

Fu la prima volta che mi sentii così solo, triste ed impotente, incatenato. Corsi con le lacrime agli occhi per non so quanti chilometri, tutto sembrava ripetersi come un fotogramma inceppato; case immobili, pesanti automobili affondate nell’asfalto ed il silenzio ad accompagnarne i pensieri.

Capire per quale motivo una intera cittadina fosse sparita di punto in bianco, solo nella lucida interpretazione di un poeta poteva risultare affascinante, segno indelebile di una città unica, ma agli occhi di un mezzo giornalista come me risultò davvero inquietante e tutt’ora mi spaventa.

Tornai a casa in uno stato di instabile pazzia e cercai nella quotidianità casalinga una sorta di calore. Non chiamai nessuno, non cercai nessuno di K o di qualsiasi altro paese; non volevo sapere se il nulla avesse violato le vite di tutto il mondo o solamente la mia città. Ero paralizzato. Presi la mia bottiglia di Aberlour e cercai di non pensare a nulla, proprio come quando mio padre se ne andò. Non so il motivo dello strano collegamento ma iniziai a pensare a lui. Mi mancava e mi mancavano i suoi discorsi; sapeva sempre tranquillizzarmi. Non parlava molto ma le sue parole non erano mai scontate, non aveva bisogno di apparire, aveva una sua tranquillità interiore che lo rendeva speciale. Era il modello di persona che avrei voluto diventare.

Non ricordo quanto tempo passai a terra in totale apatia a fissare le bottiglie sempre più numerose riflettere timidamente il mio volto perso, ricordo solamente il sogno che mi diede la forza di reagire e di trovare una chiave di lettura a quell’incubo. 

E di questo devo ringraziare ancora una volta il mio vecchio padre. Era nel suo studio e stava incidendo qualcosa sul fondo di uno dei tanti violoncelli; mi avvicinai ma lui non riusciva a vedermi, aveva gli occhi tristi e i suoi occhi si riempivano di malinconia ogni volta che guardava la mia foto. Probabilmente ero morto nel sogno. 

“Avrei voluto essere un padre migliore”, questo aveva inciso nel legno. 

Mi svegliai. Per quale motivo avrebbe voluto essere un padre migliore? Quale ragione l’avrebbe spinto a mandarmi un messaggio del genere? 

Fu allora che mi alzai di scatto e corsi nuovamente dal mio vicino. C’era forse qualche messaggio su quel foglio a terra? Con un grosso sasso spaccai il vetro della porta finestra. Entrai e tutto sembrava perfettamente al suo posto: fotografie, libri appoggiati sul tavolo in sala, il telecomando riposto nel solito vano. Tutto era al suo posto eccetto Tom. Raccolsi il foglio a terra e lessi “nessuna pagina mi ha mai regalato la vita”. Allora capii.

Corsi fuori ed entrai allo stesso modo nella casa della signora accanto, non ricordo il suo nome perché era una persona molto riservata, ma sapevo essere una bravissima compositrice: “avrei voluto trovare le note perfette” era il suo messaggio.

Non so per quale motivo ma ogni sognatore aveva abbandonato la propria abitazione lasciando solamente un messaggio del suo più grande rimpianto. Li raccolsi uno ad uno custodendoli nella mia piccola borsa da viaggiatore. Ogni messaggio era l’ultima traccia di una persona speciale, una stella in meno da ammirare in un cielo sempre più nero, come luci lasciate morire nella più lunga e fredda notte d’inverno.

Allora trovai un senso. Scrivere le storie di tutte queste piccole meraviglie perché nessuno possa dimenticare il significato dei sogni e delle emozioni che solo loro hanno saputo regalare ed un giorno chissà poter rivedere la vita a K, magari un giorno, quando riusciremo a meritarcelo nuovamente.

Trovai il posto perfetto dove scrivere: una gigantesca opera creata da uno dei primi abitanti di K, l’architetto a cui la città deve tutta la sua bellezza grazie ai suoi progetti di innovativa poesia visiva. Era apparentemente una parete di cristallo ma la sua vera forma si riusciva a intravedere solo allontanandosi per chilometri e chilometri, un libro aperto dalle pagine ancora intonse che solo chi era fuori città poteva ammirare. Situata al centro della città rappresentava il simbolo del paese. Così il primo mattone di K divenne anche il suo epitaffio. 

Il cerchio stava per chiudersi. Presi allora il filo lasciato a terra, spezzato, lo legai al mio, ed iniziai così dall’unica persona al mondo a cui potessi dedicare un inizio: mio padre… 

Parte 2

“Edward Wood, hai costruito con le tue mani i più bei violoncelli della storia, regalando a poveri cantanti muti la voce che collega cuore e dita.”

Non era il mio vero padre. Mi aveva trovato per caso tanto tempo, in una fredda sera d’inverno.

“Eri stato abbandonato all’ingresso della metropolitana di K dall’altra parte della città. Avevi pochi mesi di vita e già avevi scoperto la sofferenza”, disse. Così si fece carico della mia vita, mi portò a casa sua e tutto quello che sono ora lo devo a lui. Mi diede un nome, Aaron, e da quel giorno per tutta K fui il piccolo Aaron Wood, figlio del rispettato Edward Wood.

Io credo che le cose capitino per un motivo. Quello che per tanti si chiama destino per me è solamente la semplicità della vita, quel meccanismo perfetto, inattaccabile, che ci rende impotenti ed incapaci nel difendere i nostri tesori. Ogni vita ha un percorso suo e per quanto ci possiamo sforzare non riusciremo ad uscire dai binari che la natura ha scavato sotto i nostri piedi.

“Adesso vorrai cercare i tuoi veri genitori, immagino…”, mi disse poi quella sera. No. Non mi importava assolutamente.

Il Book Monument stava lentamente prendendo i colori degli abitanti di K. Le parole che scrivevo mi servivano a non pensare a quello che era accaduto ed alla strana direzione che la curva mia vita aveva preso. Sapevo di essere sull’orlo della pazzia ma avevo un compito da finire e questo mi dava la forza per andare avanti.

Mi ero abituato al silenzio ed alla solitudine ma c’era una parte di me che voleva scappare, terrorizzata e indifesa. Per quello una delle prime cose che feci fu di bloccare l’unico collegamento con la nostra città, la metropolitana. 

Di quel giorno ricordo una strana sensazione di prigionia, nata dalle sbarre che mi ero creato attorno, e la neve che iniziò a fioccare delicatamente, quasi a volermi rassicurare come una madre premurosa. Ascoltavo il suono strozzato degli scarponi affondare nei pochi millimetri del manto bianco formato lungo il marciapiede di Queens Street, le luci avevano ancora la forza per sorridere e per un attimo sentii la mia anima leggera. Ero l’unico spettatore di uno spettacolo bellissimo, ed in un certo senso mi sentii come se fossi l’unico abitante di un pianeta lontano. Pensai alla pioggia di mercurio di Titano e sorrisi.

Rimasi ad ammirare quello spettacolo tutta notte, poi tornai a casa stanco e scarico di energie.   

“Ron Henderson, siamo diventati luce fondendo i nostri passi al tuo ingegno prezioso”

Si trattava di un rapido declino verso una desolante trasformazione per K. La prima cosa ad andarsene fu la corrente elettrica. Inevitabilmente. 

Ogni persona è potenziale energia e lo scienziato Henderson questo l’aveva capito, così grazie ad ingegnosi pannelli situati sotto pavimenti, strade, marciapiedi aveva trovato il modo per immagazzinarla: ogni casa era alimentata da chi la viveva. I miei passi generavano la corrente necessaria per la mia casa ma tutt’attorno c’era solo energia destinata ad esaurirsi. 

Quella notte nevosa vidi le luci di Queens Street assopirsi come un anziano attende inesorabile la sua fine nel letto di morte. Poco alla volta, come pastelli di nero imbevuti nelle lacrime, tutto si arrese al buio.

Per un po’ provai a mantenere la città in uno stato di ibernazione, come se nulla fosse realmente accaduto; ogni cosa doveva restare così com’era. Col tempo capii di sbagliare e decisi di accompagnare la città alla sua naturale trasformazione verso uno stato di abbandono e desolante solitudine. Quanto è difficile abbandonarsi al domani quando il presente è drogato di oro…

Avevo la barba lunga, indossavo gli stessi vestiti per settimane nonostante il mio guardaroba fosse piuttosto fornito. Non avevo più cura di me stesso, mangiavo pochissimo ed il mio aspetto andava di pari passo con il degrado di K, ma sapevo in cuor mio che l’unica cosa importante era sopravvivere. Tolsi gli specchi che avevo e iniziai a vivere così, un po’ animale e un po’ eremita. 

Ogni messaggio lasciato era una vita., ogni vita era una storia, ed ogni storia si poteva ricomporre dai piccoli frammenti di vita che una casa lasciava. Fotografie, appunti, diari, notizie ritagliate dai giornali, oggetti vari erano utili per comprendere il sognatore che non conoscevo. Come Susan Jenkins. 

Aveva  più o meno 45 anni quando svanì. Ed era la mente dei più bei film girati nell’ultimo ventennio. La sua straordinaria capacità di scrivere storie le aveva permesso di essere una delle più importanti sceneggiatrici della storia del cinema. Ciononostante viveva in una modestissima casa con cucina, bagno, camera da letto. Aveva anche una stanza speciale che chiamava la stanza dei sogni. Qui passava la maggior parte del suo tempo e si lasciava ispirare. E scriveva. 

“Susan Jenkins, ci hai raccontato le storie più belle chiusa in una stanza di bianca purezza, se non fosse davvero reale K l’avresti inventata tu.”

Non è un caso se tra tutti gli abitanti di K ho menzionato proprio la signora Jenkins. Non il mio caro amico Tom o le persone a me più vicine ma proprio la signora Jenkins. Perché parlare di una persona che nemmeno conoscevo?

Non saprei dire quanto tempo fosse passato quando entrai nella sua casa, in realtà il tempo era diventato un parametro piuttosto confuso nella mia testa, ma la pagina del Book Monument era a metà di questo sono certo. Avevo dedicato i miei pensieri a tantissimi sognatori perduti. I più cari, quelli che conoscevo, da tempo erano sul libro e avevo da poco iniziato ad occuparmi dei sognatori di cui non avevo mai sentito parlare. Come Robert Shawn il filosofo che voleva eliminare la tecnologia dal mondo per rivalutare il pensiero oppure Wim Danton l’illusionista dal volto sconosciuto. 

Quando entrai a casa di Susan Jenkins rimasi stupito dalla semplicità della sua dimora e ancor più della stanza dei sogni.   Non esisteva arredamento ma nella sua vacuità si capiva che non aveva bisogno di altro, era perfetta così. Le pareti spoglie erano di un intenso bianco, asimmetriche tra di loro tendevano ad incontrarsi verso l’alto come una strana piramide senza punta. E da questo piccolissimo soffitto trasparente si poteva ammirare il cielo e la notte stellata catturata da una lente di un metro circa di diametro.

Mi sdraiai sul divano di bianca pelle e rimasi per ore a guardare le stelle. Finche i miei occhi si chiusero. E ritrovai K. O per meglio dire ritrovai gli abitanti di K. 

Un sogno? Un mondo parallelo? Dove mi trovavo? Queste furono le domande che mi feci quando uscii dalla casa della signora Jenkins e con gli occhi di un bambino incredulo vidi che i sognatori perduti erano tornati. Mi tremavano le mani dalla gioia, sapevo dentro di me che non poteva essere un sogno; esattamente com’erano spariti potevano essere ritornati no?, mi dicevo. Il vicino della signora Jenkins, il pittore John Smith, stava lavorando nel giardino così mi avvicinai e chiesi: “ma dove siete stati?”. Mi guardò per qualche secondo come si guarda un pazzo, poi prima di rientrare in casa mi rispose…”Da nessuna parte figliolo” e se ne andò.

Camminando verso casa iniziai a farmi domande, come per esempio per quale motivo la casa della signora Jenkins era vuota. La mia felicità stava a poco a poco scemando lasciando spazio ad una più logica diffidenza. Dal puzzle mancavano molti abitanti ed alcuni volti erano nuovi per me. L’epilogo di questa composizione di dubbi fu quando vidi una luce dentro casa di mio padre. Nessuno ci abitava dopo la sua morte. Mi avvicinai per capire meglio quando vidi un’ombra che stava rientrando in casa. Poi la luce gli diede un volto e mi bloccai con il cuore che pulsava all’impazzata. Era mio padre. 

Mi trovavo a pochi metri ormai da lui ma non si accorse di me. Ebbi la sola forza di chiamarlo con una sottile voce strozzata. Si girò e mi sorrise. Quando si avvicinò a me i quindici passi che ci distanziavano sembrarono i terminabili. Io ero di ghiaccio e lui ebbe tutto il tempo per capirlo. Deglutii per scandire una frase sensata ma lui mi anticipò: ” non hai ancora capito nulla vero?”, chiese. 

I miei occhi si aprirono di soprassalto. Mi trovavo ancora nella stanza dei sogni. 

Avevo sognato. Nulla di quello che avevo visto era vero. L’amarezza mi annebbiò la vista e piansi vestito ancora nella mia solitudine. Nuovamente solo. Uscii e respirai. Tutto era come l’avevo lasciato. Desolante e morente.

Fu difficile dopo quell’avvenimento riprendere la mia attività senza essere stato in qualche modo ferito. Stavo andando in frantumi, mi sentivo sempre più debole e stanco. Fortunatamente però la mia missione era a buon punto.

Dormivo poco e la testa era quasi sempre ovattata. Sentivo l’ansia perforarmi lentamente lo stomaco ma volevo finire il lavoro che mi ero prefissato. I tempi in cui guardavo innamorato ogni singolo frammento di K erano ormai lontani e ad essere onesto nel profondo del mio cuore stava crescendo un sentimento di odio e repulsione nei confronti di essa. Mi sentivo come un prigioniero e K era diventato il mio carceriere senza scrupoli. Ma sapevo benissimo che quel carceriere ero io.

Dopo la prima volta passarono parecchi giorni prima di tornare nella stanza dei sogni. Mi sentivo come un adolescente senza futuro che prova per la prima volta una droga. Riprovai e riprovai ancora. Gli intervalli tra mondo reale e sogno diventarono sempre più brevi, sempre più incontrollabili. Mi accorsi che ogni sognatore che aggiungevo nel libro veniva magicamente catapultato nel sogno. Un sogno che però non sembrava tale. Rimanevo sempre stupefatto da come non riuscissi a capire di non vivere nella realtà, ogni volta che riaprivo gli occhi era un assaporare delusione e disgusto. Così mi affrettavo ad aggiungere un nuovo sognatore per poi andarlo a conoscere nella nuova K. Si nuova K. Stavo poco a poco ricreando la città lontano da tutto il male materialistico che ne aveva contaminato l’essenza.

Erano passati più o meno tre anni quando finii l’opera. The Book Monument era diventato l’epitaffio di ogni singolo cittadino di K. Alcuni mi erano stati addirittura suggeriti nella Nuova K. Ormai ero tornato a vivere con loro e della vecchia K mi interessava ben poco. Quando mi svegliavo facevo il minimo indispensabile per non morire e poi tornavo nella nuova città. La fantasia aveva così preso il posto della realtà nella mia vita come un velo patinato che non mi dava la possibilità di capire. Stavo morendo ma non avevo modo di capirlo perché l’ossessione mi aveva ormai inghiottito da tempo. 

Ogni tanto mio padre me lo faceva notare ma ero troppo felice assieme a loro per ritornare a vivere in quella città deserta. “Nessuno ti obbliga a restare li…ormai il tuo compito l’hai portato a termine no? Sai benissimo che con un po’ di volontà e qualche giorno di cammino puoi arrivare alla città dove lavoravi prima”, diceva. “Hai bloccato la metropolitana ma la strada la conosco”. E poi? Cosa avrei fatto? Mescolarmi alla gente sarebbe stato impossibile. Nelle condizioni in cui mi trovavo poi. No, avrei preferito morire nelle due K piuttosto. E quella rimase la mi idea fin quando lo persi per la seconda volta. Mio padre. Ero appena rientrato dopo una breve sosta nella vecchia K per cibarmi quando vidi il vecchio Dickey correre verso di me. Con voce affannosa mi disse che nelle ore della mia assenza si era sentito male e che il cuore ora debole avrebbe detto ancora poco. Corsi da lui e lo vidi li. Ancora una volta mi stava abbandonando. Ancora una volta gli strinsi la mano. Ancora una volta lacrime. Vivi la tua vita, K non esiste più ormai. Questo mi disse prima di andarsene. Lui chiuse gli occhi ed io li aprii.

Aveva scelto di andarsene per farmi capire, era il mio inconscio che mi stava parlando. L’ultimo tentativo che ti da la vita prima di capire definitivamente che non c’è più speranza.

Era il 18 settembre 2016 quando tutto finì ed un freddo giorno qualsiasi di quasi quattro anni dopo abbandonai K per entrare nel mondo di quelli che una volta chiamavamo automi. Avevo smesso di sognare da molto tempo e ormai in un certo senso era quello che mi meritavo…

Parte 3

Rassegnazione. Forse il sentimento più comune dell’uomo. Lotti, ti scontri per i tuoi ideali, inseguì i tuoi obiettivi con tutta la tua forza finché non arriva quel momento, quella scintilla che precede il buio.

Ricordo con quante difficoltà attraversai il sentiero che mi allontanò da K ma dopo quasi quattro anni di silenzio e pazzia era l’unica alternativa alla morte. Lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare, come mi aveva chiesto mio padre. E disegnare un nuovo inizio. Ancora pagine bianche da scrivere…

Pensavo al domani senza molta convinzione aggrappandomi al solo desiderio di ricominciare. Mi sentivo totalmente spento e le mie gambe deboli avanzavano senza una meta. Mi guardavo attorno e tutto era freddo e inespressivo come l’avevo lasciato l’ultima volta. Anzi, negli anni trascorsi senza la connessione con K, tutto sembrava essere peggiorato. 

Col tempo però imparai a non giudicare accettando briciole di vita come i miei polmoni accettano ogni secondo l’ossigeno necessario per far battere il cuore e vivere. L’uomo crede di essere superiore a tutto ciò che lo circonda, presunzione che lo rende incapace di immagazzinare una proporzione semplice ed essenziale: noi stiamo alla vita come una pietra sta al suo suolo. Forse è vero che la vecchiaia rende più saggi, gli occhi iniziano a vedere con l’oceano dei ricordi e guardi tutto con la lentezza di chi ha capito. Un pianista inesperto suonerà con le sue giovani dita centinaia di note per l’ambizione di diventare il migliore o per esibire le sue doti; il pianista saggio saprà invece toccare le note giuste per dar piacere alla sua anima bisognosa di semplice musica…

Ero a pezzi ed il luogo che tanto avevo deriso in passato mi diede un bastone su cui sorreggere le fragili intelaiature della mia anima. Mi diede una seconda vita. Mi diede un lavoro ed una casa.

Melody era la figlia del direttore del giornale in cui scrivevo. Suo padre le diede quel nome ispirato da una visita a K di tanti anni fa e quarant’anni dopo lei lo convinse a farmi scrivere gli articolo di K, innamorata della città da cui venivo. Strani collegamenti del destino.

Così le mie ultime forze portarono a lei. Non abitava molto lontano. Grattacieli suddivisi in micro appartamenti replicati per chilometri si ergevano in verticale dando un senso di claustrofobia alla mia ricerca. E mentre vagavo spaesato pensavo alla storia ed al momento in cui avvenne lo scisma, quando i sognatori sempre più contaminati da vizi e materialismo decisero di andarsene. L’equilibrio si era da tempo sfaldato come un nodo che non mantiene più la sua forza e l’architetto Raphael Kronberg fu il primo a scappare nella città nascosta. Le diede colori, forme e profumi, poi col passare del tempo si trasformò nel rifugio di chi si sentiva diverso, ostile alla civiltà moderna fatta di anime vuote. Nacque così K la città dei sognatori. Per anni ci fu una totale indifferenza tra i due mondi ma quando capirono che il potenziale economo di K era notevole iniziò una nuova forma di lenta ed inesorabile contaminazione. Fino a quel 26 settembre 2016…

Non era cambiata per nulla quando la porta si aprì. Mi aveva sempre colpito quanto la sua figura algida ed androgina stonasse con i suoi modi cordiali. Ci vollero parecchi secondi prima che mi riconobbe. “Aaron? Ma cosa ti è successo?”, chiese. Non ebbi tempo di rispondere, caddi a terra senza forze. Mi portò all’ospedale.

In realtà non saprei dire come potessi essere ancora vivo. Ero fortemente denutrito e spesso avevo fitte allo stomaco ed alla testa che parevano lame affilate pronte ad incidere dall’interno. Per diversi giorni fui attaccato alla flebo, avevo bisogno di una lunga riabilitazione per riprendermi, dissero. Non mi chiesero mai denaro e la cosa inizialmente mi sembrò strana ma poi scoprii che si occupò di tutto suo padre, Jack Smith. Aveva sempre avuto un’ottima considerazione di me quando lavoravo per lui e fece di tutto per aiutarmi. Nonostante facesse parte del mondo degli automi riusciva a sentire pietà e compassione. E sicuramente non aveva problemi di soldi.

Nelle settimane di riabilitazione venne spesso a trovarmi. Mi raccontò della sua vita, di sua figlia Mel che si era sposata a detta sua con l’uomo sbagliato, del giornale. Gli mancavano i miei articoli su K, disse. Non mi chiese mai nulla riguardo ed al perché mi trovavo in quelle condizioni. Solo una volta disse che aveva saputo dalla tv che K era inaccessibile e che tutti i traffici con la città erano interrotti. Mi guardò ma non risposi.

Dopo due settimane potei uscire dall’ospedale. Mi sentivo molto meglio, senza barba e con dei vestiti nuovi e puliti non mi riconoscevo più. Fuori ad aspettarmi c’erano Jack e Melody. Mi venne voglia di un buon caffè. Parlammo del più e del meno, futili conversazioni che riempiono i vuoti. In quel momento però ne avevo bisogno. Furono gentili con me.

Jack mi trovò un piccolo appartamento dove poter ricominciare a vivere; mi propose anche di tornare al giornale ma rifiutai. Non volevo ricordare ma solo andare avanti per la mia strada. “Se cambierai idea la nostra porta sarà sempre aperta per te, Aaron…”. Ringraziai.

Avevo smesso di sognare. Dalla stanza dei sogni in poi le mie notti trascorrevano vuote ed insignificanti. E le giornate non erano molto meglio. Non era facile abituarsi ai ritmi frenetici, all’indifferenza ed alla stupidità che mi circondava. Le persone avevano perso la capacità di scrivere e leggere; tecnologie avanzate da tempo agevolavano il loro pensiero quotidiano e col solo utilizzo della parola potevano fare qualsiasi cosa. Guardandomi attorno una mattina realizzai quanto fosse assurda e grottesca l’immagine che avevo davanti ai miei occhi: un formicaio di persone avanzavano con passo veloce parlando ai loro computer tascabili in un totale disinteresse al mondo esterno. Non c’era musica ma solamente rumore, un brusio amplificato ed insopportabile che offuscava i pensieri. Non esisteva la condivisione. Spesso vedevo litigare, c’era anarchia ed il rispetto non era più un valore ma una debolezza. Il denaro era il punto focale delle loro esistenze, cardine indissolubile nonché valore primario inculcato dalla nascita. Questo era il figlio del mondo che avevamo abbandonato. 

Talvolta si riusciva ad intravedere qualche raggio di umanità, discendenti di sognatori che non avevano avuto il coraggio di scappare. Piccoli dettagli che mi facevano intravedere i lembi sgualciti di un abito che facevano fatica ad indossare. Tristezza, rabbia, depressione era il risultato di tale repressione, un olocausto di sentimenti che lentamente stava divorando anche me.

Cambiai diversi lavori nei primi anni di adattamento. Lavoravo e correvo a casa, scappando da tutto ciò che mi circondava. Benché fosse più simile ad un loculo che ad un appartamento era il mio unico rifugio, un po’ come anni prima era stata per me la stanza dei sogni. 

Poi un giorno chiamai Jack e tutto cambiò radicalmente. Gli chiesi se era sempre valida l’offerta che mi fece anni fa. Rispose di si. Iniziai così a scrivere nuovamente e K diventò un ricordo lasciato in stand by. Appagai la mia solitudine buttandomi sul lavoro e in poco tempo diventai uno dei più bravi. 

Occupandomi di cronaca mi spostavo con intensità giornaliera. In un mondo così privo di regole omicidi, suicidi, ed ogni tipo di crimine era all’ordine del giorno per cui mi era perfino difficile scegliere il soggetto che più avrebbe colpito il lettore o, per meglio dire, lo spettatore.

Se ogni epoca storica ha un suo nome descriverei quella da me vissuta come l’era del materialismo. E la televisione ne era il simbolo. Ogni articolo scritto non veniva più stampato ma digitalizzato e poi trasmesso nel canale tv specifico; ogni notizia veniva poi votata dal pubblico da casa creando un gioco di perversa curiosità. Questo era il mondo che mi circondava.

Alcuni miei articoli vinsero per alcune settimane e questo mi bastò per avere una certa fama, a tal punto che venivo riconosciuto per strada. Volendo tornare scrivere mi rovinai l’esistenza. Fui inghiottito nel vortice del loro stile di vita.

Per anni finsi di essere integrato con la loro mentalità, fatta di falsa socievolezza, parole vuote e totale incoerenza. Come un film senza colonna sonora mi lasciai trascinare, ero una foglia d’autunno caduta a terra che aspettava soffiare il vento per sentire qualche spiraglio di vita.

Con il passare degli anni persi popolarità come giornalista digitale e il mio periodo movimentato andò lentamente a spegnersi. Le quattro mura di casa erano sempre il mio rifugio preferito dove potevo togliere la maschera e respirare. Non avevo dimenticato K. Le pareti erano tappezzate con tutti i messaggi scritti dei sognatori perduti, così nei momenti più tristi mi lasciavo cullare dai loro rimpianti. Per me erano note di malinconia che rinfrancavano lo spirito, piccole suture di emozioni che rimarginavano le ferite causate dalla solitudine. Ed ogni cicatrice era una messaggio, calde parole che mi avevano rincuorato.

A sessantasei anni mi diagnosticarono un cancro allo stomaco. Pochi mesi di vita ancora. Le fitte negli ultimi giorni si erano intensificate diventando quasi insopportabili; avevo rifiutato qualsiasi accanimento terapeutico, mi nutrivo di sedativi per placare il dolore. Ma nei momenti di lucidità il mio unico pensiero era quello di tornare a K. Avevo vissuto una vita fatta di maschere e finzione, nessun legame da poter ricordare, nemmeno un caro a stringermi la mano prima di salutarmi. Realizzai di avere vissuto la vita di qualcun altro, indossando abiti eleganti a volte troppo stretti da farmi soffocare e talvolta troppo larghi da farmi sentire a disagio. Ero solo, più solo e vuoto di prima.

Strano come il tempo cambi passo quando sai che stai per andartene. Rende tutto così rallentato da farti assaporare ogni piccolo frammento di vita. Assaporavo la libertà mentre tornavo K; mi sentivo consapevole della mia esistenza coltivata nel dolore e accettando le sue forme distorte come un quadro nero e grigio che nasconde un pennellata di bianca serenità. Come un filo d’erba mi lasciavo sorreggere dal vento che mi avrebbe riportato dove tutto ebbe inizio.

Ed eccomi qui a raccontarvi la mia fine.

2046. Un giorno qualsiasi come tanti altri o come nessuno. Il campanile segna sempre la stessa ora, immobile, silenzioso. Cammino guardando per l’ultima volta K e sorrido pensando al messaggio lasciato nell’appartamento sopra il tavolo vicino a tutti i messaggi degli altri sognatori. Nessuno l’avrebbe mai letto o addirittura capito ma non ha importanza, il mio ultimo pensiero è li in compagnia di mille parole scritte con l’anima ferita.

Guardando fiero la mia opera finita sul Book Monument aggiungo il mio epitaffio con mano sicura: 

“Aaron Wood, ultimo sognatore, visse scappando alla ricerca dei perduti ed ora è con loro lontano lontano lontano…”

Era esattamente come la ricordavo. Tante cose di K erano andate distrutte ma tante erano rimaste integre, quasi perfette. Come la stanza dei sogni. Avevo portato con me una droga che mi avrebbe accompagnato in un sonno eterno finché la morte non mi avrebbe sopraffatto. Era così che volevo andarmene, allungando il mio tempo con i perduti di K godendo di ogni secondo rubato nel mondo reale.

Quanta bellezza è stata salvata dalla distruzione, pensavo…guardo nevicare fuori dal piccolo soffitto e mentre i miei occhi si appesantiscono penso a mio padre, alla vita che mi ha regalato, a K e a tutto quello successo dopo…e il mio ultimo pensiero va a al messaggio lasciato nella vecchia casa…chissà se qualcuno capirà mai…

“Aprite il varco K è un sogno che vive di respiri…”