Lontano

Parte 1

Malinconica melodia. Triste concerto della solitudine. Orchestra di lame taglienti. Giostra dalle braccia mutilate.
Lontano esili luci se ne stanno andando. Notte.
Ancora carezze, ancora parole dal sapore remoto. Canzoni.
Lasciarsi in quel dolce cullare, in quel velato abbraccio, in quel bacio senza tempo. 
Scivolare nel suo ventre assaporando odori, profumi mai sentiti prima. Accarezzare con la pelle il suo corpo e scendere, scendere… scendere.
Fluttuare nei suoi sogni di carne e ricordi. Ascoltare.
Silenzio. Assordante silenzio. Quel silenzio capace di farti impazzire.
Lentamente una porta si apre e finalmente capisci. Intima emozione.
Il suo cuore si è aperto a te e quel silenzio è mutato. Spogliato dei suoi taciti vestiti tutt’intorno è musica, parole, sogni, racconti.
E allora apri gli occhi e vedi cose che non avresti mai immaginato. La luce ritorna illuminando il tuo viso, mostrandoti quel mondo che mai nessuno ti ha raccontato.
Vedi pagine bianche riempirsi di parole, pianoforti distrutti suonare, statue sgretolate riprendere forma. 
Lentamente capisci, lentamente ricordi. Lentamente la fine.
Sprofondare restando immobili come piume senza forze. Accorgersi che non sei tu a muoverti, ma loro. Spettri di rimpianto osservano con le teste incastrate dentro mura di vergogna. Urla strozzate che non avranno mai colori.
Città senza nomi galleggiano dinanzi a te danzando come angeliche bellezze, mostrando le proprie mani ferite trasformarsi in arpe dorate. Raccogliere dai loro sorrisi diamanti dallo sguardo di seta. Echi di storie simili a una tela vuota; pennellate che s’intersecano per dar vita a un astratto ritratto.
Notte.
Lentamente il suo malinconico sospiro ricopre ogni cosa; distese di candele lasciano spazio a cimiteri di stelle. Ed è di nuovo silenzio, ancora silenzio. 

“Autunno” sussurra la tua anima e lacrime di ghiaccio ricamano foglie di dolore, alcova dalle labbra di seta.
Pensieri. Attimi si frantumano al suolo come fragili cristalli; frammenti perduti tra onde voluttuose.  Riflessi di cerchi che mai sono riusciti a chiudersi.
Scorrere le dita lungo la sua schiena d’avorio e fermarsi dove non esiste alcun suono, là dove bambini bendati strappano petali a fiori paralizzati per poi farli volare con le ali di un dolce gabbiano.
E allora il tuo sangue diventa inchiostro, ogni parola si trasforma in musica e canti senza volto danzano nella tua mente.
Lentamente la fine.
Addormentarsi come un alito di vento che si appoggia delicato alla tiepida terra lasciando un’ombra, forse l’orma indelebile del tuo cuore trafitto.
Penetrare la sua carne argillosa e lasciarsi andare per sempre a quel velato abbraccio; abbandonarsi alle note di un notturno mai scritto sentendo il riverbero dilatarsi all’infinito. Cieca eternità.

Lontano il fruscio di una figura spoglia dei suoi contorni, i passi di un desiderio puro e niveo.
Lontano il romantico volteggiare di due ombre nel silenzio.
Lontano il tuo dolore.
Lontano…   



Parte 2

Camminava lentamente ascoltando il suo cuore battere in quel petto consumato dal dolore. I suoi piedi sembravano scrivere sull’asfalto, scrivere parole che solo la paura può farti pensare.
Era notte e il gelo stava graffiando con le sue unghie di ghiaccio tutto quello che sfiorava.
La notte… creatura dal cuore spezzato, donna infelice che si nutre delle emozioni di chi non riesce a dormire amplificandole come un’ombra allungata, riflesso di uno specchio privo di sfumature.
Quanta paura aveva di tornare a casa, quant’era spettrale quella sera la strada che tante volte aveva fatto dopo lavoro. Non aveva incrociato nessuno durante il suo cammino e tutto intorno a lei pareva il ritratto della sua anima… la notte!
I lampioni erano fiori morenti che facevano cadere a terra lacrime di luce, gli alberi ragnatele che avvolgevano le case buie soffocate dal loro veleno; ogni cosa tratteneva il respiro per ascoltare il preciso e lento ticchettio delle sue scarpe, unico suono che s’insinuava in quel vuoto simile a un metronomo pronto a guidare un adagio.
Spirali di morte la avvolgevano con occhi di madre e più la distanza da casa diminuiva, più il suo corpo si dissolveva nell’aria. 
Nastri d’incenso pronti a volare come corvi dal becco argentato, legati da un unico pensiero, nodo che mai si sarebbe allentato.
“Mi ucciderà” pensava, ripercorrendo a ritroso le proprie ferite come fotografie in bianco e nero incollate nell’album della sua vergogna.
Immagini indelebili di un uomo; echi di urla, pianti, violenze; stanze dalle pareti di spugna, palcoscenico inerte di uno spettacolo sanguinoso.
Quante volte era stata maltrattata, quante volte era stata picchiata senza alcun motivo, quante volte quelle sporche mani avevano rovinato il suo viso, il suo splendido sorriso, quante volte…quante volte… quante volte…
I suoi lamenti erano diventati delle miniature incise dentro chicchi di riso, talmente piccoli da non poter essere lette da nessuno, cosi indefinibili da non poterne trovare il nucleo.
Quella sera sarebbe morta, lo sapeva; aveva perso l’anello che le aveva regalato il giorno in cui le chiese di sposarlo. Quando ancora i suoi occhi non volevano vedere, quando ancora il suo amore si arrampicava scappando dall’orrore dell’evidenza. 
Si sentiva come una conchiglia in cui ormai non si sente più il suono del mare…
Poi il cancello di casa e tutti i suoi pensieri volarono via schiacciati dalla pesantezza del suo destino già scritto.
Guardava la porta d’ingresso con gli occhi velati del colore della disperazione, quegli occhi che non ti fanno guardare, ma solamente sentire; e nella cecità delle sue emozioni il suo piede toccò qualcosa, riverberando quella vibrazione fino al suo cuore come la corda di una chitarra ben accordata.
Sorriso…
Raccolse una busta in cui risuonavano le campane della felicità: dentro trovò il suo anello e un biglietto: ogni giorno che passa è una lama che penetra sempre più nella tua anima. Scappa finché  sei in tempo!  Questo c’era scritto.
Cercò con lo sguardo tra gli spifferi e le fessure degli alberi spogliando la strada con la sua voce debole che si spezzava nel vento come filamenti d’acqua, ma non trovò nessuno.
Solamente lei la vide…Sophie.

Sdraiata sul letto dei propri ricordi guardava il soffitto ascoltando il sussurro delle cosce nude che ondeggiavano tra le lenzuola di lino. Osservava i suoi lineamenti disegnati sulle pareti e pensava, rifletteva…
La porta leggermente socchiusa lasciava entrare tristi note di piano che, delicatamente, presero per mano i suoi pensieri facendoli ruotare come monete di fumo, inebriando la stanza del suo aroma. 
Memorie che non l’avrebbero più lasciata, soffocandola forse un giorno quando i suoi occhi sarebbero diventati delle croci deformi. Quegli occhi che la facevano volare nella profondità dell’anima, bruciando le maschere di ogni persona che si scioglievano in un religioso incedere aprendo crepe indolori come spilli dalla punta di gomma.
Occhi simili a pagine bianche, pergamene vergini pronte a essere guidate lungo la via della vita, a essere intinte del passato celato. 
Chiome di serpenti indifesi abbandonavano il forziere dov’erano rinchiusi per arrivare ai suoi piedi e fondersi nel suo respiro, orgasmo di due amanti sconosciuti che scolpiscono un amore completo.  
La prima volta che Sophie affogò negli occhi di qualcuno spogliandone l’anima fu per lei come morire; moriva ogni volta che vedeva la tristezza delle altre persone, la solitudine di cui erano circondate, l’incomprensione che le imprigionavano in gabbie dalle sbarre infuocate. Le sue mani di carta non facevano altro che raccogliere ricordi dolorosi, visioni senza speranza, immagini strazianti.
La sua prima morte fu come cadere in un interminabile scandire di secondi – forse mille, milioni o magari nessuno – nella bocca di un pozzo infinito, facendo diramare il suo pianto come minuscole arterie senza meta.

Una stanza. Due corpi. Amore…
Movimenti lineari, meccanismo perfetto di una macchina ardente, davano vita a sensuali sospiri, gemiti lascivi che trasportavano il corpo in un’altra dimensione. Un’inseguirsi di piacere, di parole, di carezze, di baci. Il fremito delle loro pelli…amore…
Poi la fotografia di Sophie, il viso di sua madre… e l’angoscia nel sentire il sesso di lui, di un lui che non era suo padre, entrare nella donna diventata puttana.

Istanti riversi come pezzi di un puzzle che non riescono a incastrarsi. 
Quel giorno, quadro senza cornice, l’inverno bussò al cuore di Sophie e per molto tempo piccoli cristalli di neve coprirono la sua persona, seppellendo quel dono divenuto aborto.
Talvolta alcune lacrime si schiudevano e minuscole fessure, precise incisioni fatte con un bisturi affilato, diventavano l’obiettivo di un telescopio rimasto immobile a contemplare i lineamenti di un malinconico paesaggio. Affacciarsi a quella finestra significava vedere il suo candido vestito disteso su un immenso prato bianco e il suo corpo tremante, accarezzato da fiocchi gelati, aspettare la morte mentre univa punti sempre più sbiaditi in cerca di costellazioni sconosciute. 
Altalena che avrebbe potuto oscillare eternamente, adagiando il proprio moto sulle lancette del tempo sottomesse da quella pesantezza insopportabile, come rami di quercia che si chinano vecchi e malati.  
Un fazzoletto che ondeggia accompagnato da una nostalgica brezza sopra un mausoleo in rovine, era questa la prima immagine che aveva quando le chiedevano come stava, altare sconsacrato dove nessuno poteva salire.
Poi, lontano, il canto felice di un angelo che ritrovò le sue ali e la storia di un anello che le cambiò la vita…

Specchi. Labirinto di specchi. 
Una bambina impaurita, sola. Correva evitando i riflessi del suo viso, con i piedi nudi e gonfi di solitudine. Stille di tristezza che decoravano sul volto la bellezza assoluta. 
Ritagli di gioia infranti contro lo scheletro di un pensiero evanescente, edificio orfano di fondamenta, nido abbandonato. Porto di battelli defunti che mai l’avrebbero lasciata, orrori marchiati sul dorso di vitree mura, diafana visione di una bara sospesa nel seno di un acquario di pietra. Carne strappata per rappezzare buchi di palazzi pronti a crollare, profumo di deserto, orgia di alfabeti sconosciuti.
Attraversava i lineamenti di binari asimmetrici, calpestando le nervature di pozzanghere verticali, invisibili tracce di una serenità capovolta.
Lentamente una visione sfocata le si avvicinò ridefinendo pian piano i suoi contorni di sangue come il rimbombo di parole che non riesci a capire; parole che a un tratto si svestono del fango di cui erano ricoperte per lasciarsi spiare nella loro atroce verità. 
Il vento prese per mano il suo sguardo… 
Le fiamme di un fuoco acceso, un sofà girato di spalle, una finestra leggermente chiusa e un’immensa malinconia. Solo questo riuscì a vedere, poi si svegliò attanagliata dalle sue paure.
Isabel era il suo nome… 

Cenere di donna. Granelli d’autunno piovevano dal cielo come vernice grigia soffiata su di un corpo avvolto da una rete di spine; perpetuo gocciolare in un Novembre rubato alla fantasia di un pittore suicida. Novembre…
Le parole avrebbero potuto continuare a socchiudersi eternamente in un confuso e labile equilibrio, bisbigliando nella quiete, discesa di rumori sempre più leggeri, lievi, sottili. Manciate di foglie morenti guardavano la città muoversi intorno a loro in un’ipnotica danza immersa nel silenzio.
Quello struggente silenzio in cui Sophie e Isabel s’incontrarono… per caso, tra le pagine di un libro o le pause di un racconto, incastonate come un rubino nella testa di un anello antico. Per caso, rinchiusi in una cripta di pensieri muti, i loro sguardi si sfiorarono; mano nella mano, abbraccio che avrebbe spiccato il volo. Fragile poesia vestita di note dispersa nel crepitare di un vinile stanco di girare, vulcani neri che partorivano nella notte giocando a costruire inferni di ghiaccio.
Niente avrebbe potuto più separare le loro vite legate ormai da una corda d’acciaio intrecciata solamente di emozioni, senza nemmeno l’istantanea di un gesto o la dolcezza di una parola che potesse in qualche modo giustificare quel legame.
Solamente uno sguardo…

Fotografia senza luce…

“Morirò tra le tue braccia bruciando come un fuoco impazzito. La tua pelle diventerà mia, il tuo profumo si fonderà col mio e dal cielo vedranno una stella così bella che vorranno darle un nome… quel giorno diventeremo una sola cosa e potremo scappare lontano sotterrando i nostri corpi nel cuore di chi non ci ha mai amato.”

Un pianto venuto dal profondo, disteso come un tappeto che non riuscirà mai a trovare fine, orizzonte che scorre parallelo all’oceano, alla ricerca di un punto che possa unirli nuovamente stracciando nella tavolozza di chi li ha separati i colori che nessuno è mai riuscito a vedere.
Quegli occhi così intensi trasportarono Sophie nel mondo di quella ragazza che ancora non aveva nome, ma che la solitudine aveva da tempo fatta sua amica. Fu come piangere senza versare lacrime, rinchiudendo il dolore dentro di sé aspettando che il lento fluire di quel magma malato percorresse ogni singolo sentiero del suo corpo svuotato. Vuotarsi di ogni sentimento e sprofondare nella solitudine creando nel vuoto la propria esistenza. 
Nessuno avrebbe mai potuto pensare che una ragazza così bella potesse sentirsi morire dentro a tal punto da credere di non esistere veramente. Spesso si paragonava ai personaggi dei libri che d’un tratto svaniscono, cancellati come errori. Isabel era il suo nome…

Nei suoi occhi regnava l’immagine riflessa della madre che una sera tornò a casa trovando suo marito privo di vita disteso sul sofà e lei, piccola Isabel, addormentata tra le sue braccia, scaldata dal fuoco che l’aveva cullata nel sonno.
Nei suoi occhi l’immagine di sua madre impazzita per la perdita che continuava ad attenderlo al parco in cui si conobbero.
Nei suoi occhi l’ombra di sua madre impiccata e l’angoscia di quelle ultime parole: non tornerà mai più!…
Nei suoi occhi la voglia di raggiungerli e la consapevolezza di vivere in un mondo che non le apparteneva.
Nei suoi occhi l’immagine del suo corpo che penetrava nel mare senza più risalire.
Nei suoi occhi la morte.

Il bianco candore di un letto piegato su se stesso, abbandonato in cielo come un aereo di carta che non vuole più atterrare, percorrendo traiettorie luminose simili alle arcate di un violino cieco, suono di neve che cade regalando speranza a chi vuole morire. Sciogliersi nell’oceano, scendendo in punta di piedi e fondersi lentamente alla sua anima imparando a respirare in quella liquida essenza. 
Così voleva morire…imparando a respirare…

Notte.
Remava Isabel stringendosi al riflesso del suo viso, lasciandosi accarezzare dal riverbero di quella voce antica scavata da rughe senza tempo, talmente sensuale che avrebbe voluto ascoltarla per sempre.
Remava in un deserto artificiale sospesa da una pellicola di luce che le impediva di guardare l’orizzonte e di salutare, per l’ultima volta, le sterili vibrazioni di quei palazzi anemici.
Attimi allungati fino alla rottura per diventare frammenti di eternità, la coda di un sospiro che sfiora la superficie dell’acqua come una lama rovente che incide la pelle. Immagine di una lapide di fango in attesa di un nome. Malinconica melodia…
Senili trasparenze perdute tra le scie di leggeri movimenti, lembi inconsistenti stretti fra le labbra di un’odalisca morente. Scivolare nel suo ventre…lentamente…
Poi il dolce unirsi di fragili mani di seta e il suo corpo levigato che risaliva in un adagio incedere; millimetri di oceano gettati dalle stive di onde interminabili che, forse un giorno, avrebbero disegnato sulla schiena di qualche scoglio sperduto il viso della donna che l’aveva salvata…

I colori rarefatti di una notte bianca mescolati nel cuore di una cornice di tristi fiori di loto, metallo fuso che danza tra le spire di un arpeggio di chitarra che mai avrebbe smesso di suonare. 
Lontano il centro di un cerchio diventato lo scheletro di un quadro mai dipinto e, nel suo lento sgretolarsi, ogni figura diventava confusa acquisendo lentamente forme sempre più sconnesse. Soltanto Sophie e Isabel si potevano vedere, nascoste nel riflesso di una lacrima, sedute, una accanto all’altra, in silenzio, mentre l’oceano raccontava storie che nessuno avrebbe ascoltato…

Parte 3

Parole che avresti voluto uscissero dalla tua bocca…
Pensieri soffocati e lasciati esplodere nella mente…
Il riverbero di una stanza lasciata chiusa per troppo tempo, senza il profumo dell’aria che cammina lungo i filamenti dell’angoscia…
Le tracce della propria voce sempre più debole che non riesce più a penetrare la fragilità di migliaia di pagine vuote… 

Sfumature di neve…

Il lento addormentarsi di due corpi senza vita, melodie distanti che non riescono a sfiorarsi soffocate nell’immensità dell’oceano in un suicidio di dolore…
Un pianoforte distrutto che suona raccogliendo note sperdute tra le crepe di quegli abissi…
Il canto di una storia sovrapposta alla realtà come velluto di speranza…
Una voce che diventa un timido sussurro…

Carezze del mare…